venerdì 30 dicembre 2011

Noi mamme non siamo i teppisti napoletani.......

 

— 2/03/02, di Marco Nerirotti

I sogni del teppista
Criminalità minorile: storie di estorsioni, spaccio, rapine raccontate dai protagonisti a un magistrato di Napoli

Ciro ruba per la prima volta a tredici anni. A sedici è già detenuto per estorsione e spaccio di droga. Una carriera niente male, deve pensare qualche amico suo. Ma questo è Ciro delinquente. Quali sono i passaggi di Ciro bambino che nasce nel disagio, finisce nella devianza e rotola nel crimine? Eccoli. Padre ignoto e madre malata di mente, messo fuori dalla scuola senza tanti scrupoli, finito in istituto, accolto da una nonna amorevole quanto incapace, che lo vizia con la misera pensione. Ciro vuole il motorino? Ecco il motorino. Peccato che glielo rubano e, per farglielo riavere, chiedono un "cavallo di ritorno", un pizzo di trecentomila lire. Basta prenderli di nascosto all'adorata nonna. Glielo rubano un'altra volta, alzano il prezzo del "cavallo" ma gli pongono un'alternativa: "Se ti unisci a noi le cinquecentomila le puoi guadagnare ogni giorno". Ciro - ex bambino del quartiere Scampia - è un "fascicolo" del Tribunale per i minorenni, destinato a passare alle Procure ordinarie. A questi "fascicoli" dà vita - storie e pensieri, ostinazioni e ripensamenti - Melita Cavallo, per trent'anni magistrato minorile, con il saggio Ragazzi senza (Bruno Mondadori editore). Tecnico e meticoloso, concentrato di procedura penale, psicologia e sociologia, Ragazzi senza è scritto con un linguaggio semplice e alla portata di tutti, per far capire origini del crimine, sbarre, perdoni e rieducazione. Ne vien fuori il ritratto del disagio, poi quello della devianza, un mare mosso e cangiante, che non è ancora crimine, mentre il crimine è sempre figlio della devianza. E vengono fuori le risposte del diritto e della società, quelle che talora appaiono facile buonismo e sono invece la via più rapida, e faticosa per chi la deve percorrere, verso il recupero. I ragazzi si raccontano ai giudici. Pietro, 16 anni, famiglia regolare, studente alle superiori, scarso profitto, va con amici maggiorenni a tirar sassi da un cavalcavia. Ci scappa una vittima. Perché l'ha fatto? "Non so", risponde. Il magistrato insiste, e lui va oltre la noia, il vuoto: "Volevo vedere che cosa si prova, se avevo paura oppure no. I miei amici dicevano che avrei avuto paura e non ce l'avrei fatta". Imitazioni, emozioni forti e paura di essere escluso. Ma se quello frequentava la scuola, altri sono veramente gli orfani di una delle strutture fondamentali per la loro vita, dopo la famiglia. Il ritratto che fa la Cavallo è dolente: emarginazione al posto dell'aiuto, rifiuto al posto dell'accoglienza. E allora il ragazzo "zavorra" - mortificato, sospeso, respinto, umiliato - può sorridere grato e dire: "Signor giudice, meglio a Nisida che a scuola". Perché Nisida è il carcere minorile napoletano, dove non ti etichettano e, piuttosto, ti spingono avanti. Era l'anno scolastico 1977-78. Due alunni di una media bruciarono alcune suppellettili: furono sospesi per tutto l'anno. Il che andavano contro un diritto stabilito dalla Costituzione, ma ne faceva due buone prede per chiunque offrisse loro un'alternativa. Nessuno si era soffermato a chiedere perché. Forse avevamo esagerato perché, di fronte a certe richieste d'aiuto inascoltate, è davvero meglio Nisida? Si raccontano, i ragazzi. Lo fanno anche scrivendosi fra loro, da un quadrato di sbarre all'altro, prima del processo. E proprio quel carteggio diventa elemento di fondo in un processo per l'assassinio di un commerciante durante una rapina. Sono in quattro, vivono in un quartiere a rischio e lo rivivono nella corrispondenza: l'unica coesione è lo sballo, non c'è traccia di sentimenti, nostalgia della famiglia, accenno a una ragazza. C'è l'esaltazioni di spinelli e impennate con la moto. E c'è bisogno di qualche soldo e questi soldi può averli un negoziante. Il leader procura una pistola, ma è doveroso esserci tutti, con i passamontagna, a sentirsi forti. La vittima reagisce e chi impugna l'arma, impreparato, sorpreso, spaventato, preme il grilletto. Il gruppo e lo sballo. Il gruppo e l'eccitazione che li lega non per affetti ma per comunanza di disagio. Come gli altri quattro che vanno a vedere un film porno, escono, trovano una ragazzina debole mentale e traslocano le molestie verbali in uno stupro di gruppo, dove il più timido e introverso, se non vuol esser messo fuori dal branco, deve almeno partecipare tappandole la bocca. Orrore, certo. Ma è altrettanto orrore il muro che gli inquirenti trovano nel quartiere. Il silenzio, l'omertà, l'essere altro rispetto alla stato, alla convivenza, alla comunità. Omertà da parte di chi domani potrà essere la vittima di ciò che ha coperto. Nessuno giustifica determinati gesti, ma se ne cerca spiegazione. La Cavallo ricorda che quando un giovane "pentito" (esistono già anche fra i minori) lascia il clan, dice testualmente: "io non appartengo più". E' cessata un'identificazione di ruolo, ma con chi? Con lo stesso mondo che aveva incontrato Ciro. In un test su 300 bambini (160 maschi e 140 femmine), il camorrista viene raffigurato come un leone, una volpe, un giaguaro, un lupo, un orso. Altri minori, di quartieri residenziali, più che eroismo, regalità o astuzia, vedono la pericolosità: ecco allora falchi, pipistrelli, vipere. Il libri di Melita Cavallo non è l'atteggiamento comprensivo generalizzato di un giudice verso le persone che ha dovuto giudicare. E' lo sguardo più ampio sui mondi che li hanno generati, accolti, spinti, utilizzati e cristallizzati nel crimine. Ma non tutti. C'è la vera storia di Rita Atria, che tutta la sua fiducia regala a Paolo Borsellino e si butta dal settimo piano quando viene a sapere che quel faro gliel'hanno fatto saltare in aria. E ci sono quelli che -fra carcere, perdoni, affidi in prova, lavori a favore della vittima- ce l'hanno fatta:
"Quella vita non faceva per me. Io voglio una casa e una famiglia, non un carcere come casa e i poliziotti come famiglia".

Nessun commento:

Posta un commento